mercoledì 4 maggio 2011

Intervista a Marilyn

   "Chissà perché – mi dice Marilyn Monroe – i giornalisti, i biografi, scrivono di me come di un’orfana: forse avvolgere di un mistero più fitto e più grande la mia vita serve alle case di produzione, ai registi, ai manager, ai giornali e a tutti coloro che attorno a me crescono, si arricchiscono, si moltiplicano...".

Ci troviamo seduti su una panchina del ‘Columbia Presbyterian Hospital’, piante e silenzio intorno, qualche altro ricoverato dall’aria tranquilla che passeggia nei vialetti discreti e ombrosi. È il 2 marzo 1961 e Marilyn è ospite di questa casa di cura da qualche giorno.

"Sono appena stata dimessa da un’altra clinica, ma quella era un ospedale psichiatrico, un vero e proprio manicomio: venivo chiusa in una stanza con inferriate alle finestre, una porta sprangata e imbottita, un oblò di vetro attraverso il quale mi si poteva controllare, o meglio spiare, tutto il giorno... Mi scuso se passo da un argomento all’altro senza un nesso apparente, ma la stranezza – ma sarebbe più giusto dire la pazzia – è strettamente legata alla storia della mia famiglia e ci riporta quindi alle mie origini".

È calma, pacata. La voce è morbida, con qualche incrinatura dolcemente roca. Qualche esitazione la rende più vulnerabile, più ‘vera’. Racconta episodi anche dolorosi della sua vita con grande serenità, quasi con distacco, non solo per una certa rassegnazione che le si legge anche negli occhi ma evidentemente anche grazie alle cure cui si è sottoposta. Ho avuto il privilegio di poterle far visita per merito della sua cameriera personale, Lena Pipitone, una ragazza di origine italiana.

Quando ho provato a ringraziarla, Marilyn mi ha subito interrotto: "Io adoro gli italiani – mi dice – ho avuto anche un marito italiano, Joe Di Maggio... Ah, lo sapeva...".

Benedetta ragazza: chi non sa tutto dei suoi matrimoni, dei suoi amori sfortunati, tutto della sua vita? Riprende a parlare cercando una posizione più comoda sulla panchina immersa nel verde e l’ampia vestaglia non riesce a nascondere del tutto le curve appesantite da settimane di cure e di inattività.
"Le mie origini, dicevo, non sono quelle di un’orfana, anche se questa versione ha fatto comodo anche a me, visto che la mia è una famiglia particolare: il mio nonno paterno è morto in manicomio, anche se non sono sicura che fosse proprio mio nonno in quanto non so se mio padre fosse davvero mio padre...".

Si ferma un momento e rendendosi conto della confusione che sta facendo, il volto le si illumina in un sorriso insolitamente ingenuo.

"Il fatto è – continua – che quando sono nata, mio padre era morto in un incidente stradale. Intanto gli era già subentrato un altro uomo, uno zingaro di origine norvegese da cui presi il cognome: fui registrata all’anagrafe col nome di Norma Jean Mortensen. Dopo qualche anno mia madre si pentì di quella scelta e chiese di cambiare il mio cognome, dandomi quello del marito scomparso, Baker. Per completare il quadro devo dire che in realtà credo di esser figlia di un certo Stanley Gifford il quale, nel settembre del ‘25, ha avuto una breve ma intensa relazione con mia madre... Io sono nata il 1° giugno del ‘26, lo sapeva?".

      Devo dire che annoto quanto Marilyn racconta senza prestarle molta attenzione: mi distrae e mi sorprende l’aria fragile e indifesa di questa ragazza che sembra aver soltanto voglia di liberarsi di un peso.

"Stavo parlando di mia madre, oppure no... Comunque si chiamava Gladis Pearl Monroe... Ho preso il nome d’arte dal mio nonno materno perché è anche il nome di un famoso Presidente degli Stati Uniti, un nome importante... Mia madre abitava alla periferia di Los Angeles e lavorava nel grande giro di Hollywood: guardarobiera, stiratrice, sarta. Una donna ignorante, leggera, ma che lavorava duro per non farmi mancare niente. A causa degli impegni e degli orari preferì affidarmi ad una famiglia di amici, i Bolender, a cui passava un assegno mensile di 25 dollari; veniva a trovarmi spesso, trascorreva con me interi week-end e mi prometteva ogni volta di riprendermi con sé. Fu in uno di questi week-end che la mia nonna paterna, Della, che già aveva dato qualche segno di squilibrio mentale, e torniamo al discorso della pazzia, tentò di sopprimermi. Ero andata a fare il solito sonnellino pomeridiano, sognavo di annegare, di soffocare, non so... Poi mi svegliai tutta sudata ma la sensazione si era fatta più concreta, opprimente. Aperti gli occhi, vidi mia nonna sopra di me con un cuscino, gli occhi sbarrati, mentre farfugliava parole senza senso, che non capivo... Fortunatamente fu fermata in tempo e condotta a raggiungere il disgraziato marito, già da tempo chiuso in manicomio. L’episodio turbò molto mia madre che ebbe forti sensi di colpa, prese a bere e decise, quando avevo sette anni, di riprendermi con sé. Andammo a vivere in un bungalow tutto bianco preso in affitto, dove ho conosciuto i molti uomini che venivano a tener compagnia a mia madre. Fu in quel periodo che cominciai a balbettare... poi torneremo sull’argomento, visto che è quello che più le interessa. Gli amici di mia madre, dicevo: mi chiamavano ‘the mouse’, il topo, forse perché ero brutta o forse perché avevo l’abitudine di spiare ogni volta che veniva un nuovo ‘fidanzato’, un nuovo ‘zio’".
Mentre mi racconta queste esperienze, Marilyn è veramente se stessa: una ragazza sola che l'abuso di alcoolici e psicofarmaci sta lentamente distruggendo, una vita sentimentale e relazionale travagliata e insoddisfacente, la paura della pazzia che deve averla sempre tormentata.
Come leggesse nei miei pensieri, riprende: "Mia madre dava sempre più segni di squilibrio: cominciarono i ricoveri, le dimissioni, i ricoveri... Nel ‘35, avevo nove anni, fu internata definitivamente in un manicomio e da quel momento sono stata davvero un’orfana. Si occupò di me la municipalità di Los Angeles e fu l’orfanotrofio, la sussistenza mi attribuì un contributo che, pur misero, faceva gola a qualche famiglia, che chiese l’affido di quella bambina chiamata ‘topo’".
Di nuovo un sorriso, triste, sulle labbra.

"Fui affidata ai Mc Kee: Grace era un’amica di mia madre che già si era presa cura di me durante le sue crisi. È lei che mi ha insegnato a truccarmi, a muovermi, a far girare la testa agli uomini. Io, diventata ragazzina, facevo dei servizi nelle case del vicinato guadagnando qualche dollaro. Intanto Grace Mc Kee aveva sposato un certo Goddard, un omaccione schifoso che una notte entrò in camera mia e mi saltò addosso. Mi misi a urlare, accorse gente e fu scandalo; si era dato il via a qualcosa di orribile per me: le male lingue cominciarono a far paragoni con mia madre, le comari mi correvano dietro gridando che sarei finita male anch’io, puttana come mia madre, come lei in manicomio. L’ostilità della gente non ha fatto altro, però, che fortificarmi: prima cercavo solo un surrogato di una famiglia mai avuta, un po’ d’affetto, un lavoro tranquillo per vivere... Ora nasceva la voglia di dimostrare che no, non ero come mia madre, non sarei finita male. Gli uomini, che pensavano di potermi avere solo schioccando le dita, avrebbero dovuto sognare anche solo un mio sguardo; le donne, che mi offendevano in modo tanto bruciante, avrebbero dovuto crepare d’invidia e imitarmi, sognare di diventare come me. Naturalmente avrei potuto conquistare tutto questo solo attraverso il cinema. E Hollywood era lì, a due passi...".

      Tace, mi guarda negli occhi, sospira, si torce le mani e infine mormora: "La balbuzie... Sono convinta che sia stata la barriera tra me e le grandi parti, quelle che portano all’Oscar. Ho sempre cercato di non parlare in pubblico per paura di balbettare. Al momento della mia apparizione, preferivo abbagliare i presenti con i miei abiti cuciti letteralmente addosso che lasciavano tutti col fiato sospeso... ha presente?".

Ho presente, ho presente...

"Devo dire che anch’io riuscivo a respirare, stretta com’ero, solo grazie alle profonde scollature... Poi, quando mi avvicinavo al microfono, ricorrevo all’arma migliore delle persone che balbettano: cantavo... Lo sa che cantando non si balbetta?".

Lo so, lo so...

"Così, un po’ facendo l’oca, un po’ cantando, riuscivo a salvarmi. Ma quando la necessità di comunicare si faceva assoluta, quando avevo a che fare con uomini di un certo livello, lo sforzo per essere all’altezza diventava insostenibile. Ho cercato sempre di migliorarmi, di riscattare la mia infanzia, di catapultarmi al di là della balbuzie: ho frequentato l’Actor’s Studium di New York per imparare a recitare, ma proprio il suo direttore, Lee Strasberg, che pure è mio amico, mi ha sempre considerato un’oca; ho cercato di elevarmi culturalmente, leggendo tutto quel che mi capitava tra le mani, ma proprio il mio terzo marito, il celebre commediografo Arthur Miller (conosce?) mi ha sempre trattata come un bell’oggetto da mostrare e mi ha schiacciata sotto il peso della sua cultura; lui giocava una sicura carta vincente: una parola ricca, profonda e sicura, pungente, maligna... Non c’è da stupirsi se proprio con lui avevo più frequenti blocchi emotivi. Ora anche quel matrimonio è finito e sto meglio: riesco ad esprimermi con maggiore fluenza, mi sento più sicura. In questo mi ha aiutata anche il successo ottenuto nel film ‘A qualcuno piace caldo’: finalmente anche la critica ha molto apprezzato la mia recitazione... Tutto questo dovrebbe farmi star meglio, sto superando certi complessi legati alla parola...".


 
La voce si incrina di nuovo, ma coraggiosamente riprende, rialzando la testa come in un gesto di sfida, una sfida alla vita: "Ho lottato da sempre in cerca di riscatto, di rivincite e non so più che cosa voglio veramente... Forse mi manca un figlio: ho provato, ho rischiato... e sono sola. Ormai ho poca voglia anche di pensare alla carriera: arrivo tardi sul set, lavoro svogliatamente, faccio disperare registi e colleghi... Mi rifugio sempre più spesso nell’alcool, negli psicofarmaci. Ora sto meglio, mi hanno disintossicata, sono pronta a riprendere la lotta. Mi è vicino un caro amico come il mio ex marito Joe Di Maggio (glielo avevo detto che adoro gli italiani?): voglio riprovare a tornar su, a battermi, anche se, accidenti, non so bene per che cosa, per chi...".

Si è alzata, mi saluta cordialmente, gli occhi velati di lacrime. Forse le ha fatto bene sfogarsi. O forse no.

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